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Le parole in carcere sono importanti; risuonano nei lunghi, infiniti corridoi interrotti da continui cancelli e sbarramenti; nelle celle anguste; negli spazi dell'aria murati oltre l'altezza dello sguardo. Vengono sussurrate, urlate, cantate, scambiate con passione, talvolta con scoramento e disperazione, a volte represse o autorepresse. Le parole in carcere non si usano tanto per dire, perché sono la materia prima della resistenza, la sostanza della dignità, il reagente chimico che rivivifica la memoria inerte; insomma le parole sono l'essenza della libertà, l'unica possibile in detenzione. Nelle celle si scrivono lettere, si annotano pensieri, si ricostruiscono ricordi, si dà voce, sulla carta, a quel che resta di una vita, a quello che è stato, che avrebbe potuto essere e non è stato, a quello che sarà, che ancora potrà essere. Per questo motivo chiedere a una persona detenuta di riflettere su alcune parole chiave da trasmettere ai ragazzi non è un'operazione banale, né didascalica o moralistica: per ogni parola scritta c'è un tormento interiore, un ricordo che brucia, una ragione inascoltata, una speranza ancora accesa, un sogno mai accantonato. Non ci sono frasi fatte, dentro il carcere, perché ogni minuto qui dentro rischia di essere perduto se le parole non gli danno un senso. -Daniela Bianchini.